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Carcere di Regina Coeli


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Storico carcere romano, durante la guerra vide rinchiusi antifascisti, fascisti traditori e partigiani. Divenne quindi un simbolo della Resistenza in città e soprattutto della sofferenza patita dalla popolazione.

Fin dal 1881 il convento carmelitano secentesco di Maria in Trastevere venne destinato a carcere ed inaugurato nel 1900.

Durante il fascismo divenne anche carcere politico, che ospitò tra gli altri Alcide De Gasperi. A seguito dell’occupazione della città il terzo e il sesto braccio vennero gestiti dalle SS. Da lì vennero molti dei morti di Forte Bravetta e delle Fosse Ardeatine; ma anche i 320 deportati del 4 gennaio 1944. e poco distante si trova il Collegio Militare, dove furono portati i rastrellati ebrei della razzia del 16 Ottobre 1944.

 Vi furono reclusi numerosi antifascisti (politici, militari e uomini di cultura). Si arrivò a oltre 2500 detenuti, quando la capienza era di 900. Epica la fuga di Pertini e Saragat il 24 gennaio 1944. I due futuri presidenti erano stati arrestati il 18 ottobre 1943 e condotti in via Tasso. Successivamente portati nel sesto braccio di Regina Coeli dove erano stati condannati a morte a metà novembre. Trasferiti nel terzo braccio con alcuni ufficiali badogliani, riuscirono ad evadere insieme ad altri cinque prigionieri politici grazie a un piano concepito da Giuliano Vassalli e Peppino Gracceva, comandanti dei socialisti clandestini romani, poi Brigate Matteotti, con l'aiuto di Massimo Severo Giannini e Ugo Gala, che predisposero un falso ordine di scarcerazione.

Fondamentale fu il ruolo svolto dall'interno del carcere, dall'avvocato Filippo Lupis, che si finse funzionario della questura, e dal medico Alfredo Monaco, che insieme alla moglie predispose un nascondiglio dopo la fuga. Il 3 febbraio vi morì Leone Ginzburg, arrestato nella stamperia clandestina di Italia Libera.

Vi furono detenuti anche i fascisti che avevano votato l’odg di Grandi in attesa del processo di Verona e quelli della banda di Palazzo Braschi, arrestati dai tedeschi per le loro ruberie.

Nel dopoguerra il direttore Donato Carretta fu oggetto di linciaggio da parte della folla. Il 18 settembre, durante il processo contro il questore Pietro Caruso, fu riconosciuto e assalito. Carretta venne picchiato, trascinato sopra le rotaie della linea tramviaria e infine gettato nel Tevere. Il cadavere venne recuperato e appeso alle sbarre di una finestra del carcere.